Associazione Mantovani nel mondo

Lunario contadino di Franco Turrina

Aprile

La campagna esigeva impegno e lavori urgenti. Bisognava approntare il terreno per le semine del granoturco e nelle zone irrigue, ove cioè era possibile la coltura del riso, arare, “rondolare” il terreno e predisporre gli argini. Rondolare significa rendere il terreno perfettamente in piano affinché non risultassero dossi ed avallamenti che avrebbero danneggiato il riso, “annegando” le piantine se troppa acqua, essiccando le stesse se l’acqua non avesse coperto il suolo). Quest’operazione si faceva immettendo poca acqua sul terreno arato ed erpicato affinché tutta la superficie risultasse coperta uniformemente con qualche centimetro d’acqua, come una livella per superfici, quindi: spianare i dossi e riempire le buche.
Quasi tutti gli anni la ricorrenza della festa religiosa Pasqua di Resurrezione avviene ed avveniva nel mese di aprile. I tre giorni che precedono la Pasqua le campane erano mute. Nessun suono in segno di lutto (credo): Anche all’interno delle chiese la liturgia prevedeva che il campanello durante la messa fosse sostituito da una serie di rumori gracchianti o battuti con delle tavole di legno, rumori che ferivano lo stato d’animo e non consoni all’ambiente, tuttavia accettati dalla tradizione e dalle autorità religiose.
Il sabato della Resurrezione, tutte le campane, dopo un certo orario, suonavano a distesa. Nel silenzio della campagna, si diffondeva questo scampanio festoso, dal campanile vicino e da altri lontani. I contadini e le donne nei campi interrompevano il lavoro per recarsi al fossato più vicino e bagnarsi gli occhi in segno di festa per la Resurrezione.
La settimana di Pasqua cade nel plenilunio di marzo quindi, nel periodo delle semine importanti: granoturco, meloni, angurie, zucche, pomodori (un tempo queste date erano rispettate, oggi, nuove tecnologie e strutture consentono tempi diversi).
Era tradizione, sentita nel secolo scorso, che durante la settimana che precede la Pasqua, nelle case si facessero le “pulizie di primavera” che, oltre al bucato prevedevano la imbiancatura della cucina (utilizzando calce ovviamente) Si puliva la stufa e i tubi dello scarico del fumo, intasati di fuliggine. Si lustravano le pentole e gli attrezzi di cucina.
Compito di noi ragazzi era la pulizia della catena del camino, la graticola, i tre piedi ed altri attrezzi del focolare. Legavamo il tutti questi attrezzi con un lungo filo di ferro o funicella e trascinavamo nella polvere della strada e della corte per qualche ora.
Lo sfregamento con il terreno e con la ghiaia, in effetti toglieva il nero della fuliggine e delle incrostazioni, ma poi era sempre la mamma che doveva completare l’opera.
Durante Le notti senza luna, nella primavera inoltrata, assistevamo ad un silenzioso vagare di luci lungo gli argini dei fossi limitrofi alle risaie . Erano i cercatori di rane che, muniti di lampade alimentate ad acetilene (carburo), raccoglievano a sacchi di queste bestiole abbagliate dalla luce. 

Maggio
In maggio s’iniziava l’allevamento dei bachi da seta, l’operazione era particolarmente impegnativa e prevedeva uno scompiglio nella case, infatti lo spazio necessario per i bachi era tale da imporre spostamenti e rinunce.  Per fortuna che il ciclo di sviluppo e produzione dei bozzoli si conclude in breve tempo, (45 giorni) poi si tornava alla vita normale.
Il migliore fieno è il maggengo, fieno ricavato dal primo taglio dei prati, appunto nel mese di maggio. I carri arrivano nella corte gonfi di fieno profumato che occuperà gli ampi spazi nei fienili vuoti. La sistemazione dei fienili era un lavoro che normalmente era eseguito da uomini e donne. Lavoro ambito perché non molto pesante, fatto all’ombra e spesso dava luogo anche a piacevoli intermezzi. Si mormorava che i nati di febbraio e marzo, erano i figli del fienile. 

Giugno
Nelle risaie ferve il lavoro di monda e trapianto del riso. Centinaia di donne, curve nell’acqua fino ai polpacci, le gambe protette da vecchie calze, (per ridurre il danno delle punture di insetti ), un ampio capello di paglia, che le giovani ingentilivano con un nastro colorato. Dalle sei del mattino alle tredici, curve sotto il sole a togliere erbacce tra le piantine del riso. Intervallo di un’ora alle otto, per una frugale colazione che ciascuna si portava da casa. A questo scopo un ragazzo o un anziano aveva predisposto la legna necessaria ed acceso un fuoco sullo spiazzo vicino, sotto gli alberi a margine della risaia. Le fette di polenta erano abbrustolite sulle brace, sostenute da stecchi di legno. L’addetto al fuoco aveva anche il compito di procurare una botticella di acqua fresca, portata dalla corte. Accadeva che per errore, dimenticanza o negligenza, la botticella fosse vuota o non sufficiente, allora.. anche l’acqua del canale, spostate le alghe in superficie, era “promossa” …fresca e potabile.
A san Giovanni (24 giugno) si raccoglievano le cipolle e l’aglio
Le falci lucenti con un lungo manico in legno “i fer da sgar” e quelle ricurve per la mietitura, venivano “battute” con una martellina dal manico cortissimo, la sola impugnatura della mano, su un apposita piccola incudine, conficcata nel terreno (le “piante”), dopo la battitura le lame venivano affilate con la pietra ad acqua portata nel corno appeso alla cintura ” el coder“. Aveva inizio la grande ed impegnativa operazione della mietitura del grano. Nelle aziende di una certa dimensione le falci servivano ad effettuare “le strade“, i passaggi per la falciatrice meccanica che depositava lungo il suo percorso i covoni sulle stoppie. I covoni venivano legati impiegando un legaccio fatto con un intreccio di erbe palustri “bals“, questi legacci dovevano essere messi a macerare qualche giorno prima per renderli tenaci e per evitare dolorose ferite alle mani. Infatti questa erba, “la caresa“, è un arbusto dalle foglie lunghe e sottili, spigoli seghettati, maneggiata senza esperienza può provocare fastidiosi e profondi tagli alle dita (se impiegata asciutta).
Nelle piccole aziende a conduzione famigliare, tutto il lavoro di mietitura, veniva fatto a mano da donne e bambini. Dopo qualche giorno i covoni venivano trasportati nella corte, accatastati in un’enorme cumulo.
Ai primi di luglio iniziava la trebbiatura.

Luglio
In campagna, alcuni lavori, per importanza degli stessi o per le caratteristiche che essi rappresentavano, assumevano valore di un rito sacro, pagano: Valore che andava oltre il lavoro in se, coinvolgeva tutti gli abitanti della corte. Tra questi lavori vi era: l’uccisione del maiale, la vendemmia e pigiatura dell’uva e la trebbiatura del grano.
La trebbiatura, (se escludiamo la fatica fisica che comportava), era una attività che affascinava. L’arrivo nella corte di questi macchinari complicati e rumorosi, la sistemazione degli stessi in linea sull’aia: vapore, trebbia, pressa. L’energia era data dal “vapore”, una caldaia mobile dotata di un alta ciminiera metallica, praticamente una piccola locomotiva ferroviaria alimentata con legna e carbone. Un pesante volano, mosso dall’eccentrico dello stantuffo, collegava mediante una lunga cinghia in cuoio il moto alla trebbia e da questa alla pressa.
Il fuochista responsabile, un uomo sempre sporco di fuliggine e grasso, dava il segnale di inizio del lavoro con due lunghi fischi a vapore. Dopo di che, spostando una leva mandava il vapore accumulato allo stantuffo.
Tra sibili e getti di vapore, lentamente il “gigante” si metteva in moto accompagnato dallo sferragliare della trebbiatrice e dal ritmo metallico della pressa. Il fumo e la polvere avvolgevano gli addetti, uomini e donne. Noi ragazzini avevamo il compito di alimentare il serbatoio d’acqua che veniva incessantemente risucchiata dalla pompa della locomotiva.
Ci affascinavano quei congegni in movimento, l’odore del grasso sugli snodi e della pece sulla cinghia. La trebbiatrice, frantumava i covoni che venivano gettati in una tramoggia nella parte alta della macchina. In basso, da due sportelli sui quali era ancorata la bocca di un sacco, usciva il prezioso grano. I sacchi erano subito portati direttamente nel granaio. Una lavagnetta fissata alla parete della trebbia, serviva per segnare con un gessetto ogni sacco riempito.
La pressa era collegata direttamente alla trebbia, un lungo nastro trasportatore raccoglieva la paglia che veniva espulsa dalla trebbiatrice e convogliata in una tramoggia, spinta nel gabbione della pressa dal lungo collo di giraffa ricurvo, “el macaco“, che ripeteva con ossessione i suoi movimenti alternativi. La paglia, pressata dal carrello collegato al “macaco”, veniva legata in balle regolari, poi accatastate con cura oltre l’aia formavano geometriche costruzioni piramidali, campo di giochi proibiti per noi ragazzi.
Spesso succedeva che il padrone portasse pane e salame con qualche fiasco di vino. Durante queste brevi pause impreviste il fuochista controllava ed ingrassava gli snodi e le pulegge. I nostri genitori addetti a quel pesante lavoro tornavano la sera, irriconoscibili, coperti di polvere e di sudore.
Il fosso dietro casa, abbondante d’acqua, era la nostra doccia ed era anche la nostra piscina. Infatti tutti abbiamo imparato a stare a galla e a nuotare in quei fossi, tra le rane e le erbe palustri.
La terza domenica di luglio,” Sant’Anna il riso in canna“. I risai, responsabili delle varie corti si davano appuntamento in una località, abitualmente ad una sagra di un paese vicino, per festeggiare il buon esito del futuro raccolto. Ciascuno ostentava con orgoglio, un mazzolino di giovani spighe colte nella “sua” risaia. Discutevano di riso, di esperienze e si sfidavano sul migliore prossimo raccolto.

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