Pubblichiamo l’intervista di Marta Carrer a Paola Basola, milanese d’origine emigrata in Argentina nel 1956, sostenuta dalla nostra Associazione per far fronte alle spese mediche necessarie a contrastare la grave malattia che le ha colpito gli occhi.
Ciao! Prima di iniziare questa intervista voglio raccontarvi che, come tutti gli anni, domenica scorsa sono andata a festeggiare il giorno dell’immigrante e il compleanno della mia Patria; è un’emozione ascoltare i due inni, vedere o, meglio detto, immaginare le due bandiere sventolare assieme. Finché la mia cara figlia mi accompagnerà non me la perderò mai perché è una festa per il mio cuore. Oggi giorno è sempre meno il numero di persone che concorre a questa riunione, perché essere immigranti oggi è diverso: le distanze sono le stesse ma il tempo per attraversarle è infimo; è finita la nostalgia del paese natio già che le notizie giungono immediatamente. Ai miei tempi la posta era un castigo e allora queste riunioni avevano un dolce sapore a “terra nostra”.
Ci racconta le sue origini?
Sono nata a Milano, Lombardia, il 18 agosto 1939.
Qual’è la storia della sua famiglia in Italia?
I miei genitori, Alba e Vittorio, avevano comprato un appartamento a Milano, vicino alla ditta dove lavorava papà, la Borletti. Mio padre era ingegnere e a quei tempi erano pochi coloro che avevano la fortuna di studiare. Sfortunatamente a settembre si è dichiarata LA GUERRA. L’Italia era piena di tedeschi e papà era figlio di padre ebreo. Come proteggermi? Mamma, innamorata, non voleva lasciarlo solo. Che fare? Un’amica di famiglia, che viveva a Montodine, nel cremasco, si offrì a prendersi cura di me, così sono rimasta in famiglia da loro, con visite frequenti nei primi tempi dei miei genitori e poi più scarse, fino a rimanere senza notizie. Nel 1941 è nato mio fratello, anche lui è stato a Montodine, ma siccome aveva problemi di salute, lo hanno mandato a Cortabbio con degli zii (che avevano più mezzi economici).
La guerra tutto distruggeva, gli aerei bombardavano implacabili le città, i bimbi morivano ingannati per mangiare delle caramelle che li facevano volare in aria. A papà l’avevano preso prigioniero e non si sapeva dov’era; mamma, disperata, lo cercava su ogni frontiera senza risultati. Io crescevo tranquilla nella campagna, ancora oggi sento l’odore penetrante del fieno, il sapore del latte appena munto, le corse per l’aia, per me non era arrivata la guerra, avevo cinque anni, solo cinque.
Finalmente, la guerra è finita. La famiglia si riunisce. Però dove? La casa che avevano comprato era stata bombardata. Milano era tutta una maceria. Il governo svizzero costruì delle casette prefabbricate dietro l’ospedale militare a Baggio, e abbiamo avuto la fortuna che ce ne assegnasse una. Ma arrivò il gelido inverno, dormivamo in quattro nel letto per scaldarci (oggi giorno, chiudo gli occhi e vedo, col riflesso della luce, le stalattite di ghiaccio che pendevano dalle pareti). Tutto passa, anche l’inverno. Mamma, grande lottatrice, seminava verdura nel pezzettino di terra che circondava la casetta ma anche dei bellissimi fiori perché ci portasse gioia al cuore. Papà cercava lavoro, non era facile, ma grazie alla sua preparazione lo trovò un poco lontano, a Pavia, presso la Necchi e poco a poco riprendemmo a vivere, cambiando casa e scuola.
Riuscirono a tirarsi su, per la loro gran forza e capacità; a papà offrirono di venire in Argentina come direttore della fabbrica che qui si stava installando e non hanno dubitato, era l’occasione per cercare e trovare pace. Non separarsi mai più dai loro figli: io avevo già diciassette anni, un mondo brutto o bello, ma fatto; compagni d’università. Ma come disubbidire a papà e mamma? Siamo arrivati a questo generoso paese nel 1956.
Quali sono i ricordi più vivi che ha dell’Italia?
Come vi ho già detto, gli odori della bucolica campagna, con i cipressi sul viale del cimitero, col vecchio ponte che si muoveva per attraversare il fiume Serio. Le passeggiate ai laghi lombardi. Una bella gita che ho fatto con mio papà su una Vespa (siamo arrivati fino al lago Trasimeno, in Umbria). L’indimenticabile giro d’Italia prima di partire per la nuova terra: Genova, Firenze, Roma, Napoli, Assisi, San Marino, Venezia.
Cosa ama di più dell’essere italiana?
Le bellezze naturali, artistiche e la bella musica. L’intelligenza dei suoi dirigenti, la forza di volontà e la speranza del popolo per ricostruire quel paese che la guerra aveva distrutto completamente.
Quali sono state le sfide che ha dovuto affrontare nel Nuovo Mondo?
Senza amici, senza sapere la lingua, i miei studi non servivano perché non era possibile omologare il titolo, bisognava iniziare di nuovo tutto e sorridere per non amareggiare i genitori, che erano felici di averci tolto dal pericolo. Questa era la terra dell’avvenire. Duro, durissimo, ma non impossibile; se loro avevano sopravvissuto alla guerra, io potevo farlo qua. Abbiamo trascorso un periodo di benessere. Non ho ripreso gli studi, sono andata a lavorare, ho conosciuto l’amore della mia vita. Ero felice! Abbiamo avuto una bimba, Sonia. Tutto andava bene, lavoravamo entrambi, risparmiavamo perché volevamo rimodernare una vecchia casa. Quando sembrava che ce la potevamo fare, la malattia di mio marito si è portata tutto via… Tre anni di sofferenza, tre anni di pianto senza speranza, giacché qui non si trovavano le medicine per curarlo. Abbiamo dovuto farle venirle dalla Svezia, cercare chi le portasse, pagarle, indebitarsi…E ancora dover sorridere per non ferire la mia piccola di otto anni. La temuta morte è arrivata ma era necessario andare avanti, far crescere il mio tesoro, farlo studiare, prepararlo per la vita senza paure. Qua, terra generosa ma mal condotta da sempre, ogni giorno era peggio. L’economia era un disastro, l’inflazione si mangiava i pochi soldi che si guadagnavano. Quasi tutti i governanti che andavano al governo rubavano e per quanto lavorassi non riuscivo a risparmiare, solo sopravvivevo e ricordavo la mia bella Italia. Durante questo periodo, la mia forza era il ricordo e il desiderio del ritorno, ma io sapevo cos’era lasciare tutto… e non ho voluto che mia figlia soffrisse per lo stesso motivo.
Nel frattempo la mia salute ha iniziato a deteriorarsi. Quasi a seguito della morte di mio marito mi hanno incontrato un fibroma all’utero e hanno dovuto togliermelo, farmi un’isterectomia (credo nel 1976); nel 1991 mi hanno diagnosticato un’idrocefalia e nel 1994 mi hanno collocato una valvola per idrocefalia nella testa. Cadevo e mi rialzavo, continuamente ma sempre ci mettevo l’ ottimismo, la volontà, Dio non mi abbandonava. Poi tutto si fermò, per me si è tornato tutto buio, siamo nel 1999, i miei occhi ogni volta vedevano meno. Non ho potuto continuare a lavorare e la pensione non arrivava, la struttura sanitaria era un disastro e non curava gli ammalati.
Nel 2006 mi hanno rilevato un cancro alla mammella, un’altra volta chirurgia, lo hanno tolto, mi hanno fatto radioterapia e adesso continuo con la chemioterapia orale. Era come un fallimento, come se tutto fosse stato inutile, Che angoscia! Che dolore! Che fare? E ancora l’amore per mia figlia mi ha dato la forza di andare avanti.
Lei ha partecipato attivamente e per molti anni all’associazionismo italiano in Argentina. Come vede le associazioni oggi e com’erano prima? Quali sono i punti d’incontro e quali gli ostacoli?
La nostalgia per la mia Patria era molta ma il dovere era più forte. Cercavo, cercavo qualcosa che mi consolasse, che mi avvicinasse al mio caro passato e, alla fine, l’ho trovato. Nel 1988, 22 anni fa, mi sono trovata per caso con un gruppo magnifico di lombardi. Tutti ricordavamo la nostra terra, il Duomo, i laghi, le montagne, la neve. La nostalgia per la Patria era l’aria che respiravamo assieme.
Così, abbiamo iniziato a riunirci una volta alla settimana con il gruppo organizzativo e una volta al mese con tutti i soci. Ci raccontavamo le nostre storie, in quell’epoca era costoso e difficile ottenere e comprare i giornali o libri in italiano perciò ognuno portava qualcosa; cantavamo, facevamo belle gite, organizzavamo delle proiezioni colturali, incontri, abbiamo persino fatto la nostra bandiera associativa. I nostri figli, sorpresi, ci accompagnavano. E piano piano anche loro hanno fondato il gruppo giovanile (erano quasi venti giovani che studiavano, lavoravano o entrambe le cose, e tutti i venerdì si riunivano per dare forma, dare italianità, a quel gruppo che completava il nostro). Da soli hanno cercato il nostro aiuto per imparare l’inno italiano perché consideravano che non potevano appartenere all’associazione senza saperlo, leggevano i giornali per essere informati su quello che accadeva in quella “nuova Patria” che stavano scoprendo, cercarono i costumi tipici e li cucirono per mostrarli in una festa di fine d’anno ed durante i festeggiamenti delle Cinque Giornate di Milano fatto a Buenos Aires nell’antica sede d’Unione e Benevolenza; disegnarono il loro stendardo giovanile, impararono a cucinare dei piatti tipici per onorarci. Dopo poco tempo, la Regione è venuta a conoscenza delle nostre attività e ha regalato dei viaggi aerei affinché questi giovani conoscessero il paese dei loro genitori. Chi sarebbe andato? Volevamo che l’elezione dei candidati fosse giusta. Gli stessi giovani avevano elaborato un regolamento interno per assicurare la partecipazione e la giusta scelta dei futuri viaggiatori. Io ho incominciato a insegnare loro storia, geografia, cultura generale e qualche elemento di lingua italiana, così come un gioco, per non fare brutta figura quando fossero arrivati in Italia. In quel momento trovare questi dati non era facile, non esisteva Internet ma io avevo queste conoscenza ed dei libri utili, e mi piaceva aiutare e condividere questa esperienza coi giovani. La mia piccola casa sempre era piena della loro allegria e innocenza. Che gioia… mia figlia avrebbe finalmente conosciuto la mia patria, i miei odori, il mio passato. Cosa sempre desiderata ma che non si era mai potuto concretizzare. Ho subito venduto la mia piccola macchina che usavo per lavorare e così poter finanziare il viaggio e mandarla. Fortunatamente, mi scrivevo con i miei antichi compagni ed amici e ho dato a loro la bella notizia del suo arrivo. L’hanno ricevuta come una regina, gli anziani della campagna si ricordavano dell’inquieta e piccola Paola, gli amici di città anche. Ero immensamente felice! (dopo molti anni di lotta).
Sfortunatamente, i lombardi erano pochi e molto occupati ma poco a poco sono aumentati e lo scambio con la Regione si è fatto più fluido. Ci siamo entusiasmati, dovevamo vedere dove c’erano più lombardi e abbiamo iniziato a scrivere ad altre città. Rosario aveva un gruppo numeroso, anche Córdoba, Salta, Mendoza, La Plata, San Nicolás, Mar del Plata. Così fondammo la Federazione. Dopo, abbiamo partecipato del congresso organizzato a New York nel 1998 e lo stesso anno alle conclusioni a Milano. Tutto era armonia. Dopo qualche anno, i primi presidenti dell’Associazione hanno rinunciato per dare spazio a nuove figure, ma succedettero loro autorità che invece di ascoltare e lasciare spazio ai giovani li usavano così che, poco a poco, questi hanno perso interesse e si sono ritirati. Le nuove autorità solo cercavano protagonismo, di essere famosi, che l’Italia li conoscesse no per quello che facevano ma semplicemente per stare lì ad occupare una carica: la crescita dell’associazione, che loro stessi avevano fondato anni prima, non era importante. Così anche gli anziani incominciarono ad allontanarsi. Tutto cadde in un periodo di letargo. Niente si faceva, né si fa, nemmeno esiste più la “mangiata” che con tanto entusiasmo ed amore facevano i nostri figli. Entrarono nuovi soci che speravamo portassero un’aria di cambio e, sicuramente le idee ce le avevano, ma non seppero realizzarle, pensarono che era già tutto a posto e che, senza lavorare, avrebbero ottenuto quel che volevano (un posto gerarchico, qualche aiuto per occupare in seguito posti politici all’interno della collettività italiana, anche se nessuno li conosceva… ecc., ecc.). I vecchi si sono appartati, perché i più intraprendenti e quelli che si credevano la nuova forza, non seppero che fare e offesero i più anziani in luogo d’aiutarli. E, disgraziatamente, i presidenti attuali non hanno saputo mettere limiti né rinunciare, sono “incollati” alla sedia, magari hanno paura che gli succeda la stessa cosa che loro non hanno saputo frenare… Poi è arrivata la politica, ma non quella dei progetti, degli aiuti, della solidarietà, dello sguardo sempre attento ai bisogni dell’altro. Non la politica umanitaria che dovrebbe esistere all’interno delle associazioni oggigiorno. No, quella no. È arrivata una politica opportunista, la politica del “che posso guadagnare se faccio questa o quell’altra cosa?”
Bisogna trovare la maniera che le persone di sessant’anni e più, dell’altra emigrazione, possano ricordare e insegnare ai giovani a progettare, fondando così un nuovo associazionismo che non sia contaminato. Il problema è come avvicinare i giovani, come interessarli senza promettergli di tornare in Italia a far l’America là ma approfittare l’aiuto che di là ci viene per costruire un paese degno e con futuro. Il difficile è trovar la strada, magari si dovrebbe rifondare l’associazione, lasciando la nostalgia del passato, abbandonando le vecchie associazioni (fondate da tanti di noi) ed i loro dirigenti e pensando solo nel futuro per assicurare la continuità dell’italianità lombarda in Argentina. É un passo difficile e triste, soprattutto per chi ha formato parte di quella vecchia Associazione, ma lo credo necessario.
Ci racconti un aneddoto della sua vita ?
Nel 1962, prima di sposarmi, siamo andati con mio papà in Italia. Nel treno parlavamo con lui in spagnolo perché nessuno ci capisse e, per nostra sorpresa, un uomo dietro ci disse: “così che voi vivete a Buenos Aires? Che piacere!!! Io pure” Jajajaja! Che vergogna! Che piccolo è il mondo, tutto il mondo è paese.
Prima di salutarvi, voglio evidenziare il lavoro di Daniele Marconcini e del suo gruppo di collaboratori giacché il loro operato risponde ai bisogni dell’altro, pensando al futuro. Si sono presi a cuore la mia situazione e finora sono sempre arrivati a tempo, attraverso loro, i mantovani o la MIA REGIONE. Quando c’è una nuova speranza per i miei occhi malati: una medicina, un’operazione chirurgica o qualche nuova invenzione per facilitarmi la vita arrivano loro. No, non posso piangere, trovo sempre una mano amica che mi aiuta, un angelo che accende le speranze che si erano spente. Come in questa occasione, che arriva un computer che mi legge i messaggi, il giornale, le fatture della casa, a cui posso parlare e lui scrive, insomma mi permette di rimanere in contatto col mondo.
Grazie! Grazie, è solo una semplice parola che esce dal cuore, grazie a tutti coloro che hanno reso possibile questo miracolo che mi permette di reinserirmi nel mondo e mi danno la speranza che si possa tornare a essere “umani”, imparando ad ascoltare i bisogni di tutti i lombardi in Argentina.
Paola Basola