Associazione Mantovani nel mondo

Memorie, brandelli di Storia minuta.(Da Pellaloco- Mantova).

Ho vissuto gli anni della mia fanciullezza a Pellaloco. Pellaloco è una frazione del comune di Roverbella, al confine delle provincie di Mantova – Verona (Lombardia – Veneto ). Un modestissimo fossato segnava e segna appunto il confine tra le due regioni. A cento metri dal confine, entro la provincia di Verona si trova Tormine, frazione del comune di Mozzecane. I due paesi, proprio per il confine che li delimita, hanno vita amministrativa separata, distinta, ma non solo amministrativa: due chiese con i rispettivi parroci, due osterie, due scuole elementari (fino alla 3°) – per la 4° e 5°i  bambini di Pellaloco dovevano andare a Castiglione, quelli di Tormine, a Mozzecane. Purtroppo, moltissimi finivano le loro esperienze scolastiche alla terza elementare. Gli abitanti dell’uno e dell’altro paese vivevano di agricoltura.  Pellaloco, grazie alla presenza di una grande azienda agricola che lo caratterizzava, godeva di fama e prestigio nel circondaro, infatti la “corte” disponeva di moderne attrezzature (per quel tempo), trattori,colture particolari, allevamenti specializzati e di una capillare rete di irrigazione e regolazione delle acque che consentiva risaie di primo ordine.

 Colture particolari

A proposito di colture particolari, ricordo che negli anni ’40 la”corte” dedicava ampi spazi alla coltivazione del ricino. Si diceva che la produzione di olio trovasse impiego nel settore militare.  Ricordo anche la coltura del “messicano” che è stata in voga qualche anno, poi,(penso non abbia dato risultati sperati), non si è più parlato di messicano a Pellaloco. Si trattava di un seme, (presumo fosse un legume esotico) fatto passare per surrogato di caffè. Comunque, dopo la  guerra non si è più coltivato ne ricino, ne caffè messicano.  Sempre per esigenze militari l’azienda di Pellaloco, in quegli anni forniva all’esercito anche centinaia di muli.

Io mi ritengo particolarmente fortunato, aver avuto una mamma che mi parlava tanto, mi raccontava fatti della sua giovinezza vissuta nei campi in quei paesi. Mi parlava di  avvenimenti, date, ricordi ed esperienze. Penso mi abbia lasciato tanto. Anche per questo, porto nel cuore un dolce ricordo e un riconoscimento che si somma all’amore che ogni figlio ha  per la propria mamma.

 Prima guerra mondiale.

 Tra i fatti più lontani riferitimi, risalenti alla prima guerra mondiale ricordo che nel 1917 l’esercito italiano aveva organizzato un campo per prigionieri di guerra austriaci. Si trattava di un modesto campo di raccolta presso una azienda agricola della zona,( Grezzano). Ospitava forse un centinaio di prigionieri austro-ungarici, sorvegliati da qualche decina di militari italiani (ben lieti della loro mansione, lontana dai pericoli del fronte). Certamente quel “Campo” non aveva le strutture disumane che resero tragicamente famosi i campi della guerra a noi più vicina. Comunque, la fame deve essere stata tanta e la vigilanza dei nostri militari, abbastanza scadente, infatti all’imbrunire nelle sere d’inverno, ombre furtive si avvicinavano ai casolari contadini, entravano nelle stalle ove i nostri contadini trascorrevano il filos.

Racconta mia madre, che mio nonno dopo una prima sorpresa e indecisione ,mosso da compassione aveva pensato di cuocere qualche cosa  per questi “clienti” che regolarmente poi, si presentavano tutte le sere a chiedere polenta. La fame deve essere stata tanta, tanto che una sera, forse la fame, forse l’inesperienza, questi giovani si gettarono sulla polenta appena rovesciata sull’asse, scottandosi le dita, qualcuno di questi in modo serio. Nel loro parlare (tedesco-ungherese, intercalato da qualche parola in italiano e molti gesti),lamentavano per il freddo e la fame, parlavano con nostalgia  della loro terra lontana Stiria, Carinzia, Ungheria e delle brutture della guerra.

 Dopoguerra ’15 – 18

Nell’immediato dopo guerra (1920 ) i braccianti e i salariati delle grandi aziende agricole, rivendicavano migliori condizioni di lavoro e di salario, erano i primi passi delle organizzazioni sindacali di categoria. In quegli anni, altre organizzazioni si costituivano e si muovevano con azioni che ora chiameremmo terroristiche. Infatti tutte le domeniche arrivavano in questi paesi, squadre di sconosciuti,guidati da qualcuno del luogo, erano trasportati da un camion militare, indossavano una strana  uniforme, camicia nera e pantaloni militari grigio-verde.

Il loro atteggiamento di ostentata e gratuita violenza contro chiunque osasse lamentare il loro comportamento, creò subito allarme e terrore tra i contadini. Infatti l’obiettivo era quello di colpire, terrorizzare i responsabili delle prime leghe contadine. Molti furono  coloro che subirono pestaggi e violenze di ogni genere, tra queste violenze,il dover ingoiare bottiglie di olio di ricino, gesto questo che intendeva umiliare il malcapitato che quasi sempre era qualcuno che aveva osato ribellarsi o peggio ancora aveva promosso azioni di protesta per le difficili condizioni di lavoro e di salario. Era il fascismo, finanziato dagli agrari, che faceva i suoi primi passi anche a Pellaloco e Tormine.

Alberto Borghi

Era un giovane contadino di Tormine, reduce di guerra.  La domenica, dopo aver bevuto qualche bottiglia con gli amici all’osteria, vantava nei suoi ricordi, gesti ed azioni da lui compiute al fronte. Aveva fatto parte di quel corpo speciale chiamato allora “arditi”, oggi chiameremmo marines. Nel suo parlare, accusava gli ufficiali e gli imboscati che, a suo dire spesso non erano all’altezza della situazione. La comparsa domenicale delle squadre in camicia nera, i loro gesti e le loro prepotenze, avevano risvegliato in Alberto antichi rancori che si era portato dentro dall’epoca della trincea, violenze subite da suoi superiori, da lui ritenuti inetti e vigliacchi.

Non era capace di tacere e quasi tutte le domeniche era rimproverato ed offeso, accusato di tradimento della Patria e fatto segno di violenti pestaggi e della “cura dell’olio”.  Una domenica di primavera la tensione fu più marcata e le parole di Alberto toccarono i nervi scoperti di un fascistello che non seppe controllare le sue azioni, estrasse una pistola e gridando infuriato, “chiudi quella bocca o ti faccio tacere io..” “A me non fa tacere nessuno ..!.. “Allora prendi questa…” gridò il fascista, e sparò un colpo in pieno petto ad Alberto che cadde mortalmente sul sagrato della chiesa di Tormine. Era la primavera del 1924. Si seppe che il fascista fu assolto perche il reato nasceva da uno stato di legittima difesa.

Tabacco.

In quegli anni, il governo promuoveva la coltura del tabacco, tanto da finanziare la costruzione di due essicatoi a Tormine, l’assistenza tecnica di agronomi specializzati e i semi necessari.  L’essicatoio per prodotti agricoli i n quel tempo non era certamente dotato delle strutture e della tecnologia che oggi conosciamo, ma prevedeva semplici locali entro i quali proteggere i prodotti e in questo caso, le foglie di tabacco, provocarne la perdita di umidità nella maniera più semplice ed elementare .

Più tardi grazie alla energia elettrica, si poterono impiegare ventilatori e bruciatori, al fine di riscaldare l’aria, crearne un flusso adatto allo scopo. Gli essicatoi per il tabacco a Tormine in quel tempo, erano due enormi costruzioni in muratura grezza, internamente vuote,senza finestre, semplici sfiatatoi sul tetto. Queste costruzioni erano dotate di alcuni focolai alimentati a legna e relativi camini.  All’interno di queste grezze costruzioni, corrette strutture mobili in legno, consentivano di stendere su vari piani, tante funicelle alle quali era infilata una a una le foglie di tabacco (mature). Il tepore dei fuochi sempre accesi creava un flusso d’aria tiepida e asciutta che lentamente essicava il tabacco alla giusta misura.

Le foglie erano selezionate per categoria e qualità.  Ogni tre quattro giorni la posizione delle funicelle portanti le foglie, doveva essere modificata, spostando le stesse dall’alto versoi il basso, per consentire una essicazione omogenea.  Durante tutto il processo: semina, coltivazione, sviluppo delle piantine, raccolta ed essicazione, potevano esserci controlli ”severi” da parte dei militari della finanza.  Tuttavia un certo quantitativo di foglie sfuggivano ai controlli e finivano nella pipa dei contadini. Il lavoro “al tabacco” non era molto invidiato, le donne addette lamentavano fastidiosi disturbi  mali di testa, nausea, pruriti  alle mani e alle gambe, il corpo e le mani sporche di verde-marron impossibile da lavare per alcuni giorni.

Trasporto sull’acqua

Ho solo accennato a una caratteristica che rendeva fama e prestigio alla Corte di Pellaloco. La rete d’irrigazione e regolazione delle acque. Ritengo giusto rilevare e precisare l’importanza di questa struttura. Oggi, potrebbe essere pomposamente chiamata opera d’ingegneria idraulica. Si trattava di una serie di canali,tra loro collegati, frutto di esperienze contadine messe in atto nei secoli precedenti e comprendevano: chiuse a battente,  diramazioni, ponti e by-pass che permettevano di regolare il livello dell’acqua necessaria alla coltura del riso. Queste strutture, consentivano poi in autunno al trasporto dei covoni, dalla risaia alla Corte mediante barche.  Perché l’uso delle barche? I terreni sui quali era cresciuto il riso erano intrisi d’acqua. Infatti l’acqua era tolta alla risaia verso metà settembre quindi era impossibile entrare su quel suolo fangoso con carri trainati da buoi, questi sarebbero impantanati nel fango.

60 anni fa, la mietitura del riso era effettuata manualmente da centinaia di donne, le stesse che durante i mesi estivi, aprile-giugno avevano fatto la monda ed il trapianto. Il trasporto dei covoni, dalla risaia alla corte, era realizzato da uomini che lavoravano a coppie,impiegando barelle portate a spalla,dal campo ad Uno dei tanti canali che erano serviti ad alimentare d’acqua la risaia. Nel canale erano “ancorate” le barche alla sponda. Gli addetti a questa mansione (quasi sempre i più giovani), erano chiamati “borcelini”, caricavano le due barche delle quali erano responsabili. I borcelini compivano due viaggi il giorno, ogni barca portava tanti covoni quanti ne può portare un carro con buoi. Quando il “convoglio” di barche era carico, partiva alla volta della Corte, le barche erano spinte a remo e seguivano una serie di canali gonfi d’acqua, regolata dalle chiuse.

L’attracco delle barche cariche, (il porto) si chiamava “borcelera” era uno spazio pavimentato, prospiciente l’aia ove, nelle immediate vicinanze era in funzione dall’alba al tramonto la trebbiatrice. Il ritorno con barche vuote alla risaia, prevedeva le stesse operazioni di regolazione livelli, inverse.Noi bambini, dai ponti o dalle sponde dei canali, assistevamo alle manovre che i nostri padri facevano nel guidare quel mezzo insolito E ne andavamo orgogliosi.

Personaggi

Ricordo con affetto, ovviamente i miei genitori e le tante persone oneste che vivevano nei due paesi. Ricordo tanta miseria, tanto freddo e fumo per tutti. Con il termine “personaggi”intendono descrivere alcune modeste figure che hanno lasciato traccia nella mia memoria e fantasia. Sarà per il loro lavoro specifico, sarà per il loro carattere o personalità, resta un ricordo positivo che dagli anni della mia fanciullezza, ancora porto con me.

Eleuterio Vignola

Era un vicino di casa, lo ricordo di alta statura, sofferente, tanti figli, amici della mia prima età, assieme ai quali facevamo le nostre scorribande nelle campagne e nei frutteti dei vicini. Eleuterio non andava in campagna, come la  maggioranza degli abitanti, lavorava a casa, circondato da noi ragazzi, ci parlava del suo disturbo.  Soffriva di ulcera, (oggi, il suo male sarebbe facilmente risolvibile). Ma a quel tempo l’ulcera era un tormento e una grave patologia. La sua casa sapeva di alcol, di canfora e di pastiglie.  Faceva il sellaio, aveva un tavolino con una morsa di legno nella quale bloccava enormi strisce di cuoio odoroso. Eseguiva robuste cuciture impiegando grossi aghi e filo con la pece. Realizzava collane per cavalli di tutte le dimensioni, briglie e cinghie con borchie dorate.

La Vignola erano una famiglia “con una marcia in più”. Nella loro casa c’era sempre qualche libro, oltre al sillabario. “I promessi sposi”  “Guerra e pace” “Cime tempestose” e tanti altri. Non so, come questi libri fossero arrivati a Pellaloco. Le ragazze Vignola,ed erano tante,conoscevano molte poesie e racconti che recitavano a memoria. Remo, uno dei figli maschi, penso di non esagerare sostenendo che fosse un “artista mancato”. Fin da ragazzo, terza elementare, era un vulcano d’idee e di progetti. Vivevamo in una casa senza energia elettrica, (si usavano ancora lampade a petrolio) – lui si proponeva di creare energia con l’impiego di alcune dinamo per bicicletta, mosse dalla forza dell’acqua che scorreva nel vicino canale. Tentava di raggiungere lo stesso risultato mediante pale eoliche di sua fabbricazione, che intendeva piazzare sul tetto della casa. Allevava uccelli presi dai nidi e tentava di ammaestrare le gazze. Era bravo a disegnare,voleva imitare Giotto,fin da ragazzo s’isolava In un vecchio stabile disabitato a dipingere madonne e guerrieri, utilizzava colori di sua fabbricazione con l’impiego di polvere di carbone, mattoni triturati,olio, erbe e solfato di rame.  Più grandicello, ha lavorato per qualche anno alla costruzione di un violino impiegando legno particolare da lui stagionato.  Sorprende che egli riuscisse anche a imparare a suonare il Suo strumento, rubando alcune nozioni da qualche “maestro occasionale.

Galvani- Nello e Memo

Erano i maniscalchi (fabbri) a Pellaloco. Davanti alla loro bottega, Sostavano sempre cavalli e muli per essere ferrati. Da lontano si sentiva un odore insolito di carbone acceso e di unghie Di cavallo bruciato. Ricordo il battere del martello sul rosso vivo del ferro incandescente e L’incudine per ricavarne regolari ferri per gli zoccoli del paziente cavallo.  Nello e Memo forgiavano attrezzi di ogni tipo : vomeri, asce, ecc. Oltre a riparare macchine agricole e biciclette.

Albino Gasparini,

Altro personaggio che ricordo con piacere. Aveva una bottega di sarto a Tormine. Un tempo i sarti (ora non se ne trovano più), facevano anche i barbieri. Quindi il sabato e la domenica la sua bottega si riempiva di contadini, vecchi e giovani per farsi tagliare la barba, (la barba si radeva una volta la settimana). La bottega dei Gasparini, aveva una caratteristica, quella di ospitare durante tutta la settimana e durante tutte le ore, comprese le serali, gruppi di “sfaccendati”, amici dei figli, disoccupati, ammalati, pensionati del vicinato, ambulanti di passaggio ecc. tanto da destare invidia all’oste che si vedeva un concorrente per questo ritrovo gratuito.

Nella bottega Gasparini si potevano conoscere tutte le notizie del paese e dintorni, i matrimoni e i fidanzamenti, nascite e morti, pettegolezzi, e non solo. Albino sapeva leggere e l’unico giornale che era letto si trovava nel suo negozio, non solo ma si potevano ascoltare le notizie radio, uno dei pochi apparecchi esistenti nel paese si trovava nella bottega da Gasparini.  Albino aveva combattuto, per poco tempo, nella guerra 15-18. Fu fatto prigioniero nei primi giorni di guerra e lui descriveva la sua prigionia come anni di apprendimento del suo mestiere e di arricchimento di tante conoscenze. Era un vecchio socialista e parlava con simpatia dei suoi custodi a Vienna. Ero amico dei suoi due figli, Giovanni e Nazzareno con i quali condividevo sogni, speranze, esperienze. Negli anni della guerra eravamo informati sull’andamento nei vari fronti grazie all’ascolto di trasmissioni radio in lingua italiana provenienti da Londra e Mosca. Ovviamente l’ascolto di tali trasmissioni era estremamente rischioso, riservato a pochi. Ci appartavamo in una stanzetta semibuia, a un volume bassissimo. Captavamo il segnale radio Londra. I rintocchi di quel sordo tamburo che precedevano le notizie ci mettevano in uno stato di ansia e di eccitazione. …Tum..tum..tum.. Qui Londra, che trasmette in lingua italiana, notiziari dai vari fronti di guerra. Ovviamente le notizie discordavano da quanto c’era dato dalla radio italiana. Poiche avevamo capito chiaramente che gli eserciti alleati,(America, Inghilterra e Russia) avrebbero vinto questa guerra inutile, parteggiavamo ovviamente per quelle notizie e per una rapida conclusione di quell’incubo Radio Mosca Era preceduta da un inno che molti anni dopo ho ritrovato ad accompagnare gli atleti URSS,vittoriosi in qualche gara internazionale. Dopo l’inno, prima delle notizie, la trasmittente inviava una frase che si ripeteva con enfasi in tutte le trasmissioni :…Qui Mosca, …Morte al fascismo e libertà ai popoli… In quel tempo gli apparecchi radio non avevano la potenza e la perfezione  degli attuali, quindi la ricezione era particolarmente disturbata, gracchiante e piena di sibili misteriosi. La mia fantasia di ragazzo inesperto mi faceva credere che fossero le bufere di neve che in quel momento dovevano flagellare quella terra a determinare quei lamentosi rumori. Ovviamente questi ascolti erano ad alto rischio, il “vecchio” Albino non acconsentiva con facilità che noi ci si appartasse per quelle spericolate serate.  Si sapeva infatti di famiglie minacciate con accuse di tradimento della Patria per aver diffuso notizie captate da quelle emittenti.

Cesco el risar (Francesco)

Era il regista delle acque, conosceva tutti i canali e le chiuse che consentivano la regolazione dei livelli nella risaia che, di anno in anno poteva cambiare dislocazione, per l’alternanza delle colture. Seguiva la preparazione della risaia, il livellamento dei terreni, la semina, la monda e la raccolta del riso. Assieme a suoi colleghi, risai di altre aziende, festeggiava il 25 luglio, alla sagra di Colombare, Sant’Anna. Un vecchio proverbio diceva “per sant’Anna il riso è in canna”, cioè il riso a quella data ha già fatto la spiga e promette bene.  Ora si spera nella buona stagione affinche il raccolto corrisponda alla promessa.

Monadori el pescador

Altro personaggio caratteristico legato all’acqua era Mondadori il pescatore. La risaia e i  canali che la alimentano veniva sfruttata anche come allevamento intensivo di pesce. Riserva protetta di Carpe, Tinche, Pesci gatti. Alcune reti di adeguata misura, delimitavano canali grandi e piccoli proteggendo Dalla dispersione di avanotti. Il pescatore si costruiva tutti gli anni una baracca di canne e paglia, in un punto strategico della risaia, proprio per controllare e vigilare i suoi pesci che si stavano sviluppando nella risaia e nei canali. I pericoli per il suo pesce erano tanti: furti, rottura accidentale di reti di contenimento, grosse piogge che potevano determinare straripamenti imprevisti Con conseguente fuga di pesci. Da qui la necessità di essere presente sul posto in ogni momento, quindi l’esigenza di un rifugio in baracca. Questo suo lavoro, legato all’acqua, lo poneva in stretta e positiva  collaborazione con il responsabile della risaia.

Tabarelli el meloner

Tutti gli anni gestiva la “melonera”, coltivava e vendeva angurie e meloni. Anche Tabarelli costruiva la sua baracca nelle vicinanze di una strada di passaggio. La baracca delle angurie era più spaziosa e dotata di tavoli e panche per la “clientela”, una ombrosa protezione di zucche rampicanti la delimitava. Durante il mese della produzione, (luglio-agosto), vendeva al dettaglio la sua produzione, era un richiamo per noi ragazzi e rappresentava una seria concorrenza per il gelataio.

Il gelataio della domenica

Nei giorni di festa, al pomeriggio arrivava in paese il gelataio. Il suo arrivo era preannunciato da una trombetta a soffietto manuale. Vestito di bianco, con un berrettino da marinaio, un triciclo a pedali con un cassone a forma di gondola veneziana ,bianca, sulla quale sporgeva una“cupola” lucente  entro la quale conservava il suo affascinante e desiderato prodotto. Noi ragazzi al richiamo della trombetta, gli correvamo incontro con la monetina tra le dita. Un gelato da dieci centesimi …qualcuno, raro, lo chiedeva da venti, tanti, figli di famiglie numerose, ne prendevano uno per due e anche per tre fratellini. Il gelataio con gesti da esperto, apriva quel misterioso contenitore e, con una paletta lucente pressava quella crema odorosa contro un conetto di sfoglia secca che conservava in una teca di vetro, quale trofeo a prua della sua meravigliosa gondola. Noi correvamo felici a mostrare il nostro acquisto alla mamma o al nonno.

Date

Ricordo le date della storia ufficiale, viste dagli occhi di un bambino cresciuto in un grumo di case contadine di una provincia depressa.  Ricordo fatti connessi a tali date e relative reazioni paesane. Ricordo una sera di primo estate, la maestra elementare di Tormine aveva invitato il paese ad ascoltare la radio.  Ad una certa ora avrebbe parlato il “duce” per annunciare che l’Italia aveva finalmente un impero.

Era l’anno 1936, si sentiva un uomo che gridava dalla radio, seguito da applausi e urla di gioia.

Un giorno d’estate, stavamo giocando su un carro di fieno quando un suono di campane insolito richiamò la nostra attenzione. Corse subito  voce che l’Italia era entrata in guerra, era il 10 giugno 1940.

1941, la “domenica del corriere” , tra le sue figure di prima pagina riproduceva un bombardamento aereo che i nostri gloriosi aviatori stavano compiendo sulla città di Londra, nella parte bassa si intravvedevano palazzi distrutti, fumo e fiamme.

1942     Sempre dalle figure della “domenica” i commenti dal fronte greco, muli e alpini sotto la neve nel fango.

1943     inverno nelle steppe della Russia

9 luglio 1943, il prete di Tormine dal quale io andavo a ripetizione, durante quelle vacanze, ci disse sottovoce : ragazzi, questa notte gli americani sono sbarcati in Sicilia e tracciò uno schizzo approssimativo dell’isola indicandoci il paese di Gela come zona dello sbarco. Il disegno lo fece sul fango della strada con la punta dell’ombrello. (quella notte c’era stato un forte temporale). Quindi a suo dire, eravamo alla fine della guerra.

25 luglio 1943  Era una domenica, gli uomini erano nelle osterie o alla melonera. Verso sera si diffuse come un baleno la notizia che “il fascismo era caduto, il duce non c’era più”. Si stapparono bottiglie tra urla di gioia, poi qualcuno si ricordò delle angherie subite vent’anni prima da quei bravi ragazzotti in camicia nera che facevano scorribande impunite nelle notti degli anni ’20. Volò qualche schiaffo ed alcuni quadri raffiguranti il duce finirono Nelle strade. Non si videro più divise in camicia nera e “quei giovanotti” di un tempo si assentarono dal paese o apparivano umili e rassegnati, invecchiati e senza borie,vogliosi di riconciliazione con la gente. La guerra continuava stancamente senza entusiasmi,ma con qualche apprensione. Infatti tutti i giorni lunghi treni tedeschi diretti al sud trasportavano armi e soldati che ci guardavano con disprezzo.

8 settembre 1943.

Armistizio, l’Italia usciva dalla guerra. Purtroppo il paese era già invaso dai tedeschi che pretendevano fedeltà al patto siglato dal fascismo quindi imponevano il loro volere:  la guerra doveva continuare. I militari dell’esercito Italiano che si trovavano nelle zone a noi vicine, abbandonarono le caserme rimaste senza una guida, si dispersero nelle campagne, con il difficile progetto di un ritorno alle rispettive case impiegando qualsiasi mezzo di fortuna,magari anche a piedi. Disperati e braccati dai tedeschi cercavano rifugio nelle case coloniche travestiti da contadini, alla ricerca di qualche opportunità e di aiuto. Alcuni di questi giovani sbandati, rimasero per alcuni mesi ospiti di Famiglie contadine di Pellaloco. A Malvezzo presso i Grigoli, Dai Rizzotti e alla Pavesa dai Daldosso. Ospitare un fuggiasco, (considerato disertore) era estremamente rischioso per la famiglia ospitante. Tuttavia questa ospitalità, in quegli anni era diffusa e coinvolgeva tutte le categorie della popolazione,anche la chiesa fu particolarmente presente a questo gesto rischioso di umanità.

28 gennaio 1944

Primo grande bombardamento aereo sulla città di Verona. Frequentavo l’istituto tecnico Galileo Ferraris a Verona,Da un pò di tempo, il suono lugubre delle sirene d’allarme ci faceva scendere rei rifugi, sotto la scuola. Tanti di noi correvano nell’Arena (considerata allora un rifugio sicuro), vuoi per lo spessore dei blocchi di marmo che la compongono, vuoi per una diffusa credenza secondo la quale gli aerei non avrebbero mai mirato a colpire un’opera di così alto valore storico che essa rappresentava. Gli allarmi precedenti quella data, finivano dopo qualche tempo con il segnale liberatorio del cessato allarme. Gli aerei che avevano motivato il pericolo, avranno deviato su qualche Altro obiettivo. La popolazione era abituata ; al lupo, al lupo…ma il lupo non si vedeva così l’allarme era diventato, (specialmente per noi ragazzi) un gioco, una pausa imprevista, lontani dalle interrogazioni e dai compiti noiosi. Quella mattina, il cessato allarme non suonava mai, anzi si udivano lontani colpi di artiglieria antiaerea, poi i rumori aumentarono, scoppi sempre più assordanti, come un tuono terribile senza fine. L’illuminazione nel rifugio venne meno,  tutto era buio. Nessuno più parlava, le pareti tremavano e qualche calcinaccio cadeva al suolo. Allora, la paura, le grida di terrore, i pianti soffocati mentre gli insegnanti cercavano di rassicurarci…. Poi, silenzio,  il tempo sembrava interminabile… finalmente Le sirene con il loro suono liberatore, annunciavano cessato ogni allarme. Tutti fuori, alla luce, al sole. Per le strade, passavano pesanti automezzi militari (tedeschi) che ad alta velocità si dirigevano in tutte le direzioni come un alveare impazzito. Le notizie correvano di bocca in bocca, …centinaia di morti…Santa Lucia.. La stazione ferroviaria in fiamme..San Massimo. Nessuno più quel giorno rientrò nella scuola, ci si organizzava per cercare Un mezzo che ci riportasse alle rispettive case. Mi unii ad un gruppo di persone che cercavano di essere trasportate a Mantova e dintorni, i treni non funzionavano, e nella realtà la stazione era tutto un cumulo di macerie fumanti. Trovammo fortunatamente un camioncino carico di frutta e verdura destinato a Villafranca, ci sistemammo in qualche maniera tra le casse di mele e patate. A Santa Lucia venimmo fermati ad un posto di blocco tedesco, ci fu consegnato un badile e condotti a spostare macerie che ingombravano la strada, dopo qualche ora ci fu permesso di ripartire con il nostro mezzo. Avevo raccolto alcune scheggie di bomba a testimonianza di quanto era accaduto. Da quel giorno i miei genitori non mi permisero di continuare la scuola. Del resto i pericoli si facevano sempre più evidenti e quotidiani.

Infatti, il 14 febbraio dello stesso anno, una enorme formazione di aerei destinata a ribombardare la città di Verona, ( Verona era un centro nevralgico per i collegamenti tra il sud e la Germania, via Brennero)–sconvolse tutta la  Zona portando terrore e panico in tanti paesi. Quel giorno i tedeschi tentarono di contrastare le formazioni aeree americane con aerei da caccia dal campo di Villafranca, Il cielo era tutto un turbinio di aerei che si davano battaglia, per noi ragazzi era come assistere ad un coinvolgente ma pericoloso film di guerra. Infatti, schegge e frammenti di ogni genere sibilavano nell’aria. Alcuni aerei da caccia furono abbattuti. I rispettivi piloti penzolavano nel celo appesi al paracadute, uno di questi si impigliò tra i rami di un gelso a Belvedere.  Un particolare rimase impresso, vivo nella memoria, l’urlo spaventoso da animale ferito a morte,di una fortezza volante colpita, che stava precipitando In fiamme, nella campagna vicino a “sei vie”. Penso ora, alla incoscienza nostra e quella dei nostri anziani che ci consentivano di correre sul luogo del disastra per “vedere”.     L’aereo era caduto in un canale di irrigazione vicino alla frazione di Remelli. Un mare di fiamme coinvolgeva una ampia area, mentre continuavano gli scoppi delle pallottole ancora in esso contenute. Ricordo che la caduta coinvolse una ragazza che stava lavorando nel campo. Dopo la guerra, gli americani posero una lapide a ricordo dei loro militari caduti.

Quell’anno, la presenza di azioni militari aeree fu quasi quotidiana. Il cavalcavia della ferrovia a Casalino-Pontine era particolarmente preso di mira. Caddero bombe ovunque, nella campagna vicina, nei fossi, ma mai fu colpito il ponte. Ricordo che in una di queste incursioni, (solitamente compiuta da quattro aerei), una bomba scavò una voragine profonda in un fosso, sollevò un albero che ricadde sul tetto del Casalino. L’albero sul tetto era motivo di meravigliati commenti e curiosità.

8 dicembre 1944 il giorno della Madonna.

C’era la neve e il celo era terso, soleggiato e luminoso. Eravamo nella chiesa di Pellaloco, durante la messa, ad un tratto un rumore di aerei a bassa quota richiamo l’attenzione di tutti i partecipanti alla funzione religiosa. Notammo che due aerei a bassissima quota, a noi noti come caccia americano, rincorrevano un pesante aereo tedesco dal quale usciva fumo e fiamme. L’aereo andò a sbattere le ali contro le cime di alcuni pioppi vicinissimi,  perse ancora quota e si schiantò al suolo a cento metri dalla Pila di Pellaloco.  I due aerei inseguitori, fecero ancora un giro alti nel celo e si allontanarono lasciando il silenzio mentre le fiamme divoravano quello che rimaneva della grossa carcassa. A fatica alcuni volonterosi, rischiando parecchio, riuscirono ad estrarre un giovane pilota tedesco, aveva la faccia pallida da bambino e lamentava ..tanto male gamba destra..

25 aprile 1945 finalmente era finito un incubo di terrore e di morte. Quella primavera portava luce, suoni, colori e speranze. La gioventù finalmente era gioia, era vita Gli americani si acquartierarono alle Colonne, tutte le sere si ballava nelle piazze e sull’aia, alla luce dei fari di alcuni mezzi militari. In quelle occasioni conoscemmo una musica nuova, fatta di ritmi che ci accompagnarono poi per tutti gli anni più belli.

Franco Turrina


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