Chieti, 20 aprile 2009 -. Vago in macchina da un luogo all’altro lasciandomi guidare dal mio istinto, dagli occhi; non cerco nulla, non ho bisogno d’immagini spettacolari: carrozzini, orsacchiotti di peluche, l’intero armamentario della retorica televisiva. Giro e basta, come una trottola che non sa darsi pace tra questi paesi che non sono più paesi, tra queste case che non sono più case, e questi uomini che non sono più uomini.
Sulla strada interpoderale che da Fossa porta ad Onna incontro un uomo anziano con un fagotto sulle spalle e un secchio appeso al braccio, appena mi vede arrivare alza il braccio e mi fa cenno di fermarmi. Il tempo di accostarmi e lui, con un movimento perentorio e senza dir nulla, è già in macchina come se quel passaggio gli toccasse di diritto. Si siede cercando una comoda posizione dopo aver sistemato davanti ai suoi piedi il secchio di metallo con le frocelle di vimini dentro e il fagotto di roba. Un boato conferma la chiusura della portiera. L’abitacolo, istantaneamente, si trasforma in una camera a gas, un olezzo fortissimo, come se avessi imbarcato un gregge intero. Per paura di insospettirlo non oso nemmeno aprire un po’ il finestrino per cercare un minimo di ricambio dell’aria. Il mio ospite non da segni di vita, guarda solo in avanti; alza il braccio all’improvviso, quando mi deve indicare di svoltare a destra o a sinistra, poi lo lascia ricadere senza forza sulla gamba con indifferenza, come un peso morto. Camminiamo per un bel po’ zigzagando nel paesaggio primaverile, su strade brecciate che in alcuni punti sono già polverose. Lo osservo attentamente con la coda dell’occhio, porta un vecchio paio di scarponi di cuoio, pantaloni grigi con toppe in ogni angolo stretti, all’altezza della vita, da una cinta fuori dei passanti; indossa una camicia a quadri senza bottoni e legata con un grosso nodo all’altezza dell’ombelico, i peli bianchi del petto spuntano come asparagi selvatici attraverso le fessure della maglia di lana. Il suo viso, sbarbato male, s’incupisce all’improvviso emettendo suoni gutturali, strani brontolii soffocati, quando incontriamo le masserie solitarie rase al suolo e ridotte in cumuli di macerie.
Sul nostro cammino incrociamo una piccola colonna di trattori che trasportano sui carri quel che resta delle loro case: mobili, materassi, frigoriferi, coperte e pentole; i membri della famiglia seguono a poca distanza con le loro macchine, il corteo è una via di mezzo tra un funerale e l’uscita della sposa con la dote dalla casa paterna. Finalmente mi fa cenno di fermarmi, scende dalla macchina senza dir nulla, né grazie né tanti saluti. Davanti a me c’è un grosso slargo, sulla destra una baracca di legno con tetto di zinco, sulla sinistra uno stazzo con un piccolo gregge con una decina di pecore ed agnelli, che appena lo vede arrivare iniziano a belare montando un frastuono incredibile insieme ai cani pastore che abbaiano, ai tacchini che fanno la ruota e le papere che starnazzano nel fango: un quadro vivente di Chagall. L’uomo si dirige prima all’interno della baracca, poi esce e si lava le mani in una cisterna d’acqua piovana, prende uno sgabello ed entra nel recinto sedendosi davanti alle mammelle di una pecora e inizia a mungere. Non so che fare, vorrei filmare, almeno fotografare, ma lui ogni tanto mi scruta sospettoso. Vorrei salutare e andare, magari, così facendo, potrei provocare una sua reazione, potrebbe a quel punto farmi un cenno per rimanere, qualsiasi ipotesi s’infrange di fronte alla sua solenne immobilità. Assisto alla mungitura delle pecore dal parabrezza della mia macchina come se fossi al cinema. Dopo un po’ esce dal gregge con il secchio pieno di latte e si dirige verso la baracca, poi torna indietro, entra di nuovo nello stazzo perdendosi tra le pecore come se cercasse qualche cosa.
All’improvviso lo vedo sbucare con un agnello preso per la pancia, appeso al braccio sinistro. Tutto il gregge inizia di nuovo a belare incessantemente rispondendo agli appelli dell’agnello che è appeso a testa in giù da un ceppo improvvisato. I cani sono sdraiati per terra, sonnolenti, i tacchini sono fermi come un picchetto d’onore sull’attenti, l’uomo tira dalla tasca un piccolo coltello a serramanico, afferra il muso dell’agnello e passa la lama sul collo come una carezza. Il sangue comincia ad uscire copioso sulla lana bianca cadendo sulla terra scura, il frastuono delle pecore è infernale, l’uomo fa un passo indietro lasciando il muso dell’animale che s’inarca repentinamente sul suo corpo disegnando intorno a sé un cerchio di sangue nell’aria, prima di ricadere immobile.
Tutto il gregge tace, immobile. Gli animali sono l’uno al fianco dell’altro con lo sguardo attonito rivolto verso la bestiola esanime. L’agnello è scuoiato in un batter d’occhio con un movimento deciso dall’alto verso il basso, dalla carne nuda evapora, una nuvola di fumo. Con un colpo secco di coltello apre l’addome lasciando cadere le viscere calde sulla terra, i cani si avvicinano lentamente e iniziano il loro banchetto. Le mandibole possenti frantumano senza fatica le interiora, mentre il loro padrone lava di nuovo il coltello nella cisterna prima di entrare nuovamente nella baracca. Alla radio parlano del terremoto, il corrispondente è collegato telefonicamente da Onna, a poca distanza in linea d’aria da me, ascoltando il servizio si ha come l’impressione che il fatto di cui si parla sia accaduto altrove. Dopo un po’ l’uomo esce dalla baracca e si siede all’aperto nell’aia. Taglia il pane e poggia le fette sul telo aperto sopra le sue ginocchia, prende una caciotta e lo divide in spicchi, con la punta del coltello ne infilza uno e alza lo sguardo verso di me.
Capisco che è ora di scendere, mi avvicino con un po’ di soggezione, mentre mi porge il pane e il pezzo di formaggio in mano, mi siedo per terra davanti a lui che mi guarda solenne come un Dio antico. Il cielo sopra di noi è azzurro con delle bellissime nuvole bianche, l’agnello è appeso al sole, l’uomo/pietra non mi incute più timore e la sua presenza mi rassicura, i cani sono sdraiati al sole mentre si strusciano la lingua sulla bocca, sazi. Tutto è immobile, finalmente.
Dino Viani
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